Di imprese italiane (storiche e non) che sono passate nelle mani di aziende o fondi stranieri ne possiamo contare veramente a decine. Il fatto è che, il più delle volte, innescano infinite discussioni diventando inevitabilmente oggetto di polemiche.
Vi faccio due esempi.
Nel 1998 Audi comprava Lamborghini. Pochi anni dopo leggiamo:
“Lamborghini, fatturato a quota un miliardo di euro. Nel 2017 la casa di Sant’Agata ha registrato vendite in aumento del 10% rispetto all’anno precedente. L’incremento segna una crescita per il settimo anno consecutivo, con numeri quasi triplicati rispetto ai livelli del 2010 (1.302 unità)”.
E ancora:
Nel 2012 Audi comprava Ducati. Pochi anni dopo leggiamo:
“Ducati: fatturato 2017 a 736 milioni, +30% in cinque anni”.
In genere i passaggi di proprietà di aziende italiane da parte di imprese o fondi esteri vengono visti negativamente a prescindere.
Come uno sfacelo, se non addirittura una disgrazia per il nostro paese.
E, inevitabilmente, la responsabilità (che finisce per essere una colpa) ricade sulla classe politica che – tramite tasse esorbitanti, costi indiretti della mano d’opera e burocrazia eccessiva – rende impossibile la vita delle aziende.
Eppure, a rifletterci bene, quando un’impresa cambia proprietà o viene acquisita, in genere ne vengono influenzati anche i risultati economici. E, il più delle volte, in termini positivi (aumenta la produttività, cresce il potere di mercato e così via).
Lo dimostrano imprese come Lamborghini e Ducati (che, ripeto, sono solo due dei tantissimi esempi che potrei citare) che, mentre prima erano al limite del fallimento, dopo l’acquisizione sono tornate a essere floride, moltiplicando fatturato e utili, assumendo nuove maestranze e continuando a versare tasse e contributi allo stato italiano perché la sede produttiva è rimasta l’Italia.
Generalizzare non si può. Ci sono anche casi di acquisizioni poi finite male.
Ma, quando le cose vanno bene, verrebbe da domandarsi: