Da alcune settimane a questa parte molte imprese stanno chiedendo al proprio personale che ancora era in smart working di rientrare in ufficio. Qualcuno (pochi) è tornato (o sta per tornare) a lavorare in presenza a tempo pieno e qualcun altro solo alcuni giorni a settimana. Ma se ad alcuni le nuove disposizioni vanno bene, vedo che molti altri si lamentano del rientro.
Ora, a prescindere da ciò che uno personalmente pensa dello smart working, mi piacerebbe fare con voi una riflessione un po’ più ampia. Una riflessione che si stacchi dal mero discorso legato alla modalità lavorativa, sia essa in presenza, a distanza o ibrida. Anche perché, secondo me, non è questo il fulcro di tutto.
Seguite il mio discorso.
Per tanti anni ci siamo sentiti dire dai grandi esperti del settore che
l’affiatamento tra le varie parti di un gruppo di lavoro era la chiave del successo di un’impresa.
Al punto che tante aziende – e qui mi riferisco soprattutto a quelle più grandi e strutturate – investivano molto tempo e denaro nell’organizzare e creare occasioni di pre e post lavoro, in modo che i colleghi potessero passare più tempo insieme e condividere esperienze extralavorative per rafforzare il loro legame.
Penso, per esempio, agli asili aziendali come occasione non solo di portare i propri figli a scuola, ma anche di creare una sorta di rapporto ulteriore fra i genitori/colleghi. O all’organizzazione di varie attività come pilates, yoga, o calcetto. O, ancora, alla creazione di aree ludiche – attrezzate con ping pong, biliardo e via dicendo – dedicate non solo al riposo mentale nel corso della giornata, ma anche di cui usufruire a fine lavoro per passare del tempo con i colleghi.
L’idea di base – in buona sostanza – era sempre stata:
creiamo ambienti di lavoro che incentivino e supportino un rapporto più empatico tra colleghi, perché, se c’è un buon legame fra le persone, anche i team lavorano meglio e ottengono risultati migliori.
Poi è arrivato il Covid che – com’è noto – ha stravolto molte dinamiche. Fra queste, naturalmente, anche la modalità lavorativa in favore dello smart working, che per diversi mesi è stato essenziale per continuare a svolgere in sicurezza molte professioni, ma che – per sua natura – pone anche dei limiti indiscutibili alle relazioni umane fra colleghi.
Oggi – e arrivo al punto del mio discorso – non siamo ancora fuori dall’emergenza sanitaria, ma le cose vanno decisamente meglio di una anno fa e
la direzione che stanno prendendo le aziende (italiane e non) pare essere quella di lasciare ai propri dipendenti la possibilità di organizzare il lavoro in autonomia, così da avere più tempo libero da dedicare a famiglia, amici e attività extralavorative. Perché parrebbe essere questo – oggi – che rende più “felici” e quindi produttivi i lavoratori.
Quindi mi domando (e vi domando):
ma non è un controsenso? Mi sembrano due filosofie molto diverse. Opposte, direi quasi.
Va bene che le cose cambiano, ma qui – in pochissimo tempo (forse troppo poco?) – è stata stravolta una linea perseguita e sostenuta a livello globale per molti anni.
Il mio dubbio pertanto è questo:
tutte quelle imprese che per tanto tempo avevano puntato sulla socializzazione fra colleghi come chiave di un business di successo e che adesso stanno facendo l’esatto opposto, perché hanno deciso di stravolgere completamente la linea precedentemente adottata? Si sono accorte che non funzionava?
Siccome anche io ho un’azienda e osservo le dinamiche interne cercando di mettere a fuoco e incentivare quello che funziona meglio, sarei davvero curioso di approfondire e comprendere meglio quello che sta succedendo in generale.
E – ribadisco – non sto parlando solo di modalità lavorativa, ma proprio della filosofia generalizzata che includeva l’incentivazione del rafforzamento del rapporto fra colleghi.