Verso quale modo di fare impresa stiamo andando?

Recentemente mi è capitato di leggere su Il Sole24Ore.it un articolo di Fabrizio Onida intitolato L’innovazione salva le imprese. Riprendendo quanto riportato in alcuni studi e osservatori (come il Rapporto MET 2015 e ‘Rapporto sulla competitività dei settori produttivi‘ dell’ISTAT), il pezzo tracciava una sorta di profilo delle imprese più produttive vincenti nella crisi, che “[…] quasi ovunque si caratterizza per dimensione media di addetti più elevata rispetto alle micro e piccole, anche se spesso inferiore alle poche grandi, maggior proiezione sui mercati internazionali, maggiore attività innovativa di prodotto e di processo (inclusi brevetti e marchi), maggiore capacità di interconnettersi in filiere produttive (catene del valore) domestiche e internazionali”.

A questo profilo, che personalmente trovo molto appropriato, vorrei aggiungere una ulteriore osservazione in merito alla situazione imprenditoriale italiana nel suo complesso. Fino a questo momento l’assetto societario tipico italiano è stato – nella maggior parte dei casi – caratterizzato da una formula ricorrente, vale a dire l’impresa con a capo il proprietario (casi come Barilla, Benetton e Ferrero sono assolutamente emblematici).
Oggi però a livello generale la situazione lavorativa si sta complicando sempre di più. Al punto che situazioni come quelle che ho appena descritto sono destinate a sparire per lasciare il posto a società di capitali (gestite da fondi, multinazionali e così via), le quali si troveranno a gestire le varie realtà per mezzo di manager forse più distanti dalla realtà produttiva, ma più attenti alle moderne dinamiche e alle logiche di un mondo in continuo cambiamento.
Questo nuovo modo di fare business – che oggi come oggi è molto diffuso in alcuni stati che meno di altri patiscono la recessione (come ad esempio la Germania) – può a mio avviso realmente funzionare, pur essendo profondamente diverso da quello che noi italiani siamo abituati a vedere.

Si dice che di solito un’azienda di stampo imprenditoriale sopravvive a tre generazioni: la prima fonda, la seconda costruisce, la terza distrugge. E il più delle volte è proprio così. Il nonno fonda l’azienda e il papà la costruisce. Quando arriva il figlio giovane (magari fresco di laurea in economia) e deve prendere in mano l’azienda del padre, per prima cosa fa i conti, considerando questo passaggio come un puro esercizio di matematica (senza coinvolgimenti emotivi). Se questi conti portano a risultati negativi anche solo nel medio termine, chiude e vende. Ed è normale che sia così.
Ma il padre – potrebbero domandarsi alcuni di voi – che aveva in mano l’azienda da decenni, non si era accorto che i conti erano negativi? Magari sì, ma è tutt’altro che facile chiudere un’azienda aperta da quaranta o cinquant’anni e lasciare senza lavoro decine e decine di persone con le quali magari si è collaborato una vita.
Purtroppo però si sa: gli affari non si fanno con il cuore. Io per esempio conosco tante realtà che non fanno utili e vengono tenute aperte unicamente per mantenere i posti di lavoro. Fino a quando sarà possibile ovviamente, perché un’azienda che non cresce mai, non ha molte possibilità di restare in piedi. Di questi tempi soprattutto.

Stefano Garavaglia

È il CEO di MICROingranaggi, nonché l'anima dell'azienda.
Per Stefano un imprenditore deve avere le tre C: Cuore, Cervello, Costanza.
Cuore inteso come passione per quello che fa, istinto e rispetto per il prossimo. Cervello inteso come visione, come capacità a non farsi influenzare da situazioni negative. Costanza perché un imprenditore non deve mai mollare.

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