Costi bassi o tutela dei diritti dei lavoratori?

Non vi sembra di notare, negli ultimi tempi soprattutto, una maggiore sensibilità generalizzata verso temi etici come ecologia e diritti dei lavoratori? A me pare di sì, eppure noto anche che non è sempre facile perseguire certe buone cause, perché spesso e volentieri veniamo stretti in una morsa che vede contrapposte certe necessità quasi fisiologiche e questioni etiche.

Prendiamo il discorso degli acquisti, per esempio.

Noi consumatori siamo perennemente alla ricerca dei prezzi più bassi ma, allo stesso tempo, vorremmo che la filiera produttiva del prodotto che andiamo ad acquistare fosse impeccabile. Nel pieno rispetto di tutto e tutti.

Seguite il mio discorso.

Tutti sappiamo bene cos’è il Black Friday: prezzi bassissimi per la corsa ai regali prima di Natale. Bene, durante l’ultimo Black Friday ho visto in un negozio un’offerta interessante di due camicie che, invece di costare 25 euro l’una, erano scontate a 40 euro se acquistate entrambe (un buono sconto, ma neppure tra i più alti in cui mi sono imbattuto). Allora ho fatto due conti. Siccome – com’è logico che sia – il negozio in questione doveva avere comunque il suo ritorno, come minimo doveva aver pagato quelle camicie non più di cinque euro l’una.
Ma come fa un’azienda ad acquistare una camicia appena ad cinque euro se teniamo conto di materiale, confezione, piegatura, trasporto e via dicendo, se non pagando la mera produzione dell’indumento un solo euro (di cui magari 70/80 centesimi per le materie prime, cotone in questo caso, e 20/30 centesimi per la manodopera).

Mettere a 25 euro in negozio una camicia costata appena venti centesimi di manodopera è una cifra folle. Talmente folle che quella camicia sarebbe da lasciare lì. Da non acquistare assolutamente per una questione etica.

Eppure però non possiamo non tenere conto di un altro fattore.
Ci sono capi d’abbigliamento – faccio l’esempio della moda perché è un comparto che ben si presta a questo discorso – che vengono immessi sul mercato a migliaia di euro l’uno, venendo comunque realizzati da personale pagato appena 20 centesimi per il servizio di manodopera.

Quello che voglio dire è infatti che

in moltissimi casi (e il settore della moda è uno di questi) spendere tanto per un articolo non dà una garanzia della tutela dei diritti dei lavoratori.

Tolto infatti qualche importante marchio del made in Italy (mi vengono in mente per esempio Gucci o Prada), ormai quasi tutti i capi d’abbigliamento riportano sull’etichetta made in China, piuttosto che in Vietnam o in Bangladesh. Tutti paesi dove, come ben sappiamo, la tutela dei lavoratori lascia davvero molto a desiderare.

Se i diritti dei lavoratori vengono tutelati, com’è giusto che sia, i costi ci sono. E questo – da imprenditore – lo vivo quotidianamente in prima persona.
Così come ci sono costi per ambiti affini (come per esempio quello ecologico).

Per come la vedo io, infatti,

in linea di massima se un’azienda riesce a mantenere prezzi bassi pur tutelando i diritti dei lavoratori, vuol dire che, in un modo o nell’altro, riesce a trovare il modo di “strozzare” i fornitori. Altrimenti il discorso non regge.

A questo punto però vi domando:

lo stesso concetto di mettere alle strette un fornitore per ottenere un prezzo stracciato può essere considerato etico?

Stefano Garavaglia

È il CEO di MICROingranaggi, nonché l'anima dell'azienda.
Per Stefano un imprenditore deve avere le tre C: Cuore, Cervello, Costanza.
Cuore inteso come passione per quello che fa, istinto e rispetto per il prossimo. Cervello inteso come visione, come capacità a non farsi influenzare da situazioni negative. Costanza perché un imprenditore non deve mai mollare.

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