Ultimamente si sente parlare sempre più spesso di reshoring, quando cioè un’impresa che precedentemente aveva delocalizzato la produzione all’estero (e soprattutto in territori oltreoceano), decide di riportarla nel proprio Paese (back reshoring) o comunque in Paesi vicini (near reshoring) per esigenze o strategie interne.
Una precisazione: in questo caso, parlando di delocalizzazione, non mi riferisco alle imprese che costruiscono una fabbrica in Asia (per fare solo un esempio) per vendere in Asia, bensì a chi sposta strategicamente la produzione in Asia (per riprendere l’esempio) pur continuando a vendere in Europa, con l’obiettivo di risparmiare parte dei costi e ottenere così un maggior guadagno finale.
Tocco questo tema perché è proprio di reshoring che parla un recente articolo pubblicato da Corriere.it, nel quale si legge che alcune imprese italiane molto note (come Benetton, Furla, Natuzzi Divani, e diversi altri) hanno inaugurato nuovi stabilimenti produttivi per riportare in Italia parte (se non addirittura l’intera) produzione.
La domanda quindi sorge spontanea:
perché un’impresa dovrebbe decidere di riportare la produzione in Italia? (back reshoring)
Le condizioni che, secondo me, portano al reshoring sono soltanto due.
Da un lato è diminuita la convenienza economica a far produrre all’estero, e ciò accade in parte perché sono aumentati i costi di produzione in svariati Paesi asiatici a fronte di costi europei invece calmierati a seguito della crisi economica, e in parte per un notevole aumento dei costi di importazione dovuto ai trasporti e non solo.
Dall’altro lato, invece, la ripresa di questi ultimi tempi sta offrendo sempre di più ai consumatori la possibilità di essere maggiormente selettivi, orientandosi verso prodotti di maggiore qualità e quindi verso produttori in grado di garantirla.
Vi faccio un esempio pratico legato a un fatto che vediamo accadere sempre più spesso nel nostro comparto (micromeccanica di precisione). Durante la crisi iniziata nel 2008 molti costruttori avevano deciso di trasferire la produzione (o parte di essa) in Paesi dell’Estremo Oriente; tutti coloro che si erano trovati bene, poi, avevano deciso di mantenerla lì, nonostante in Italia la congiuntura stesse volgendo al termine. La questione che sta portando molte imprese a tornare sui propri passi rivedendo questa strategia non è stata dettata tanto dalle lamentele dei clienti per una mancanza di qualità del pezzo finito (quella, tutto sommato poteva anche andare bene), quanto piuttosto per una mancanza di costanza nel mantenerla tale in tutto il lotto. Un risultato, questo, derivante dalla qualità e dalla stabilità dall’intero processo produttivo. Una qualità e una stabilità che noi italiani, per fare solo un esempio, siamo in grado da sempre di garantire. Per assurdo, a volte si ha quasi la sensazione che molti clienti preferiscano avere una qualità finale leggermente più bassa, ma costante su tutto il lotto.
Quindi, tornando al discorso principale, per me le regioni che portano al reshoring sono unicamente
la minor convenienza economica a far produrre all’estero e una maggiore ricerca di prodotti di alta qualità da parte dei clienti. Una qualità che non tutti sono in grado di offrire.
Tutte le altre considerazioni – come per esempio la politica di sostegno delle imprese verso i lavoratori italiani, oppure la creatività, o anche l’automazione spinta ai massimi livelli graize alle tecnologie legate a Industry 4.0 che permettono di produrre meglio e più in fretta – sono solo paraventi.
Cosa ne pensate?
Ovviamente sono più che felice che alcune imprese stiano ripensando le proprie strategie economiche in questa direzione, anche perché stiamo vedendo tornare clienti che prima si rifornivano all’estero. Detto ciò, però, credo comunque che le motivazioni siano esclusivamente economiche, perché
le imprese cercano sempre il maggior guadagno.
Il reshoring è la dimostrazione pratica che ogni processo è reversibile. La strada pertanto che la maggior parte dei produttori si è trovata a percorrere obbligatoriamente in questi ultimi anni di crisi – mi riferisco quindi a una maggiore attenzione alle inefficienze, agli sprechi, alle giuste marginalità e agli investimenti continui in formazione e tecnologia – dovrebbe essere condizione costante delle politiche delle nostre aziende.