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Largo ai giovani. Oppure no?

Riprendo il discorso iniziato la scorsa settimana (ovvero cosa funziona e cosa non funziona in Italia) per tornare sul tema delle nuove generazioni di lavoratori.
Chi mi conosce, o chi è solito leggere quello che scrivo, sa bene qual è

la mia opinione sui giovani lavoratori: sono il nostro futuro e riconosco in loro un grande potenziale che penso dovrebbe essere alimentato e sfruttato molto più di quanto in realtà venga fatto.

Su questo tema l’Italia è piena di persone che la pensano come me, ma anche di persone che hanno una visione molto diversa. Opinione che probabilmente deriva da un’esperienza diretta magari negativa e che quindi va ugualmente rispettata.
Detto ciò,

faccio fatica comunque a comprendere un atteggiamento che mi capita di notare spesso nei confronti di tirocini, stage o internship (che poi sostanzialmente hanno gli stessi obiettivi). Atteggiamento che vedo da entrambe le parti coinvolte.

Per spiegarvi cosa intendo, parto da un caso concreto. Pensiamo, per esempio, all’Olanda (paese che sto imparando a conoscere abbastanza bene grazie a un’esperienza personale diretta).
Esattamente come accade in Italia, anche in Olanda gli studenti hanno la possibilità di svolgere questi periodi di internship in aziende locali per periodi limitati, ricevendo un rimborso spese poco più che irrisorio (diciamo nell’ordine delle poche centinaia di euro al mese). Lo stesso accade in Italia, ma – da quello che posso vedere – con una differenza abbastanza sostanziale.

Mentre in Olanda questo tirocinio viene visto come una grande opportunità sia da parte degli studenti che da parte delle realtà che li ospitano, in Italia molto (e forse troppo) spesso vengono visti con un atteggiamento negativo.

Sia, quindi, da parte degli studenti che si sentono pagati troppo poco e in parte sfruttati, nonostante siano comunque – per la maggior parte delle volte – alle prime esperienze lavorative e quindi di fatto non ancora in grado di svolgere un lavoro in maniera autonoma; sia da parte delle imprese che, invece di porsi nei confronti dei giovani lavoratori come parte integrante del loro processo formativo, finiscono per approfittarne, scaricando – di fatto – su di loro tutte le attività che nessuno in azienda ha voglia e tempo di fare (come se si trattasse di manodopera a costo zero). Mi riferisco, pensando per esempio al nostro settore, a studenti di meccanica assunti tramite il progetto Alternanza Scuola-Lavoro e poi impiegati di fatto a scaricare camion invece che a fare quello per cui stanno studiando.

Ma se così stanno le cose, mi domando: chi ci guadagna? La risposta è nessuno.

Sicuramente non gli studenti, che perdono di fatto l’opportunità di imparare un mestiere o comunque di fare esperienza lavorativa (che comunque nella vita tornerà sempre utile). E neppure le imprese, che perdono l’occasione di formare nuove generazioni di lavoratori che poi saranno utili sia a loro che, più in generale, al sistema economico italiano.

E perché questo accade? Sempre per la solita ragione: manca un po’ di senso civico, manca la predisposizione al rispetto delle regole e mancano i controlli.
Basti pensare – tornando al tema del post – che, abbastanza spesso, viene chiesto agli studenti stessi di compilare la documentazione richiesta da scuole e università a consuntivo del tirocinio effettuato (documenti poi controfirmati dal tutor a garanzia del lavoro effettuato), dando loro la massima libertà in merito all’elenco delle attività da inserire, indipendentemente dal fatto che siano effettivamente state svolte o meno.

Tutto questo mi lascia decisamente perplesso. E a voi?

di Stefano Garavaglia

È il CEO di MICROingranaggi, nonché l'anima dell'azienda.
Per Stefano un imprenditore deve avere le tre C: Cuore, Cervello, Costanza.
Cuore inteso come passione per quello che fa, istinto e rispetto per il prossimo. Cervello inteso come visione, come capacità a non farsi influenzare da situazioni negative. Costanza perché un imprenditore non deve mai mollare.

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