Devo ammettere che, a distanza di tempo, mi sono trovato a rivedere la mia posizione sul ruolo della scuola. In passato ero piuttosto critico: pensavo che il suo compito principale dovesse essere quello di preparare i ragazzi al mondo del lavoro. Immaginavo una scuola che insegnasse a comprendere i sistemi organizzativi, a leggere un organigramma, a capire cosa significasse lavorare per processi, gestire la documentazione, fornire le evidenze di come si è svolto un compito e via dicendo
Poi però, riflettendoci con più calma, ho un po’ rivalutato quella visione.
La scuola, in realtà, non deve formare lavoratori, ma cittadini. E in quest’ottica il suo scopo non dovrebbe – secondo me – essere tanto quello di fornire strumenti operativi immediati, bensì quello di sviluppare un metodo di pensiero, la capacità di analizzare, interpretare e dare senso a ciò che accade.
In altre parole, la scuola dovrebbe insegnare a pensare, non solo a fare.
Poi è chiaro che avere certe conoscenze tecniche (come conoscere le macchine) è fondamentale, e lo diventa ancora di più se parliamo di una scuola professionale o tecnico-professionale. Ma, anche lì, l’approccio non dovrebbe mai essere puramente esecutivo. Quando un ragazzo si avvicina a un tornio o a una dentatrice, non dovrebbe limitarsi a imparare il gesto tecnico: quell’esperienza dovrebbe diventare un’occasione per comprendere il metodo, per sviluppare una consapevolezza critica di ciò che sta facendo.
L’impressione che ho invece è che in questi ultimi decenni questa dimensione si è un po’ persa.
Si tende più a insegnare “come si fa” che a stimolare il “perché si fa”, e questo, a mio avviso, è un impoverimento culturale significativo.
Un’altra tendenza piuttosto diffusa oggi nella scuola è quella di trasmettere ai ragazzi una quantità maggiore di nozioni, ma in modo meno approfondito, secondo l’idea di fondo che basti sapere che una cosa esiste. Tanto poi, se servirà davvero, sarà sempre possibile andarla a cercare e approfondire con gli strumenti a disposizione.
È una logica comprensibile, ma un po’ rischiosa, secondo me. Immaginiamo, per esempio, di proporre cinque concetti tecnici: se di questi ne rimane appena il 20% (in genere la media di quello che resta a uno studente è questa), e con il tempo si perde anche parte di quel residuo, quanto resta davvero come base solida di conoscenza?
L’idea di “fornire coordinate”, cioè di dare solo punti di riferimento che lo studente potrà poi approfondire in autonomia, è affascinante, ma a mio avviso troppo ottimista.
Se quelle coordinate non si radicano, non bastano nemmeno a orientarsi, figuriamoci a costruire un pensiero critico o tecnico coerente, che poi sarà prezioso anche in ambito professionale, oltre che nella vita.
In MICROingranaggi questo lo vediamo ogni giorno. Sappiamo che tra scuola e mondo del lavoro esiste un divario, e che chi entra per la prima volta in azienda deve affrontare un periodo di adattamento: ai ritmi, alle procedure, alle relazioni quotidiane. Per questo, quando assumiamo una persona nuova, mettiamo in conto che almeno i primi sei mesi saranno un investimento, non una resa. Un investimento di tempo, energie e attenzione da parte di chi ha più esperienza.
Poi, il più delle volte, la differenza vera la fa la persona. Quando la cerchiamo, infatti, non ci soffermiamo tanto sul background, perché il background spesso racconta qualcosa che può essere mera teoria.
Quello che cerchiamo in una nuova risorsa è la curiosità. La voglia di capire, di andare oltre, di porsi domande. È la curiosità che accende la fame di imparare e che trasforma un’abilità in competenza, un’informazione in conoscenza.
Chi invece si limita ad aspettare istruzioni e a eseguire senza chiedere, senza cercare di capire, finisce per vanificare ogni sforzo formativo. È come irrigare un terreno di sabbia: l’acqua scivola via, senza lasciare traccia.
Forse è proprio qui che scuola e impresa dovrebbero incontrarsi: nel formare persone curiose, capaci di pensare, non solo di fare.