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Perché tornare a delocalizzare dopo una scelta di reshoring?

A metà novembre Adidas ha annunciato lo spostamento in Vietnam e in Cina della produzione di circa un milione di scarpe all’anno, oggi realizzate nelle fabbriche 4.0 di Germania e Stati Uniti.

Una decisione che fa sicuramente riflettere, specie chi – di questi tempi soprattutto – ha tanto investito nelle tecnologie 4.0.

Ma perché questa scelta? Io un’idea me la sono fatta e per spiegarvela faccio un passo indietro e ritorno su un post che scrissi qualche tempo fa su un fenomeno opposto, il reshoring. All’epoca di quel post alcune imprese italiane, note per avere una produzione delocalizzata, avevano deciso di riportare in Italia parte, se non l’intera produzione, inaugurando nuovi stabilimenti ad hoc. Scrissi che le regioni che avevano portato a un back reshoring erano, secondo me, legate a una concomitanza di fattori: da un lato una ridimensionata convenienza economica a far produrre nei Paesi asiatici a fronte di costi europei invece calmierati a seguito della crisi economica, e – dall’altro – un notevole aumento dei costi di importazione dovuto ai trasporti con annessi e connessi (dazi in primis). Tutte le altre considerazioni – come per esempio la politica di sostegno delle imprese verso i lavoratori di questo o di quel paese, o l’automazione spinta ai massimi livelli grazie alle tecnologie legate a Industry 4.0 che permettevano di produrre meglio e più in fretta – erano e sono solo paraventi.

Oggi ci troviamo ad assistere a un fenomeno opposto: Adidas vuole spostare una cospicua parte della sua produzione in Vietnam e in Cina. Produzione che prima veniva effettuata nelle sue speedfactory di Ansbach, in Germania, e di Atlanta, negli Stati Uniti. Quelle stesse speedfactory che, solo quattro anni fa, erano state annunciate come la prima vera concretizzazione della quarta rivoluzione industriale, capace di mantenere in Europa la produzione e, quindi, i posti di lavoro.

La decisione, secondo le dichiarazioni ufficiali di Adidas, pare essere dipesa da ragioni organizzative, ovvero essere vicini ai fornitori, più che economiche. Ma vi sembra verosimile?

C’è chi sostiene che in realtà questa scelta potrebbe essere dovuta a questioni comunque sostanzialmente economiche: il costo della manodopera in Asia unito a quello del trasporto della merce è comunque inferiore a quello necessario per gestire e aggiornare le complesse tecnologie presenti nelle fabbriche di Ansbach e Atlanta.

Io però non la metterei giù in questo modo. Voglio dire che anche secondo me le reali ragioni sono economiche, ma non credo che le tecnologie abilitanti di Industry 4.0 siano più costose della gestione di una manodopera delocalizzata in alcuni paesi. Mettere in piedi una industria 4.0 ha dei costi decisamente importanti, questo è indubbio, ma in genere gli investimenti più ingenti sono all’inizio. Senza contare che è proprio grazie a queste tecnologie che poi è possibile raggiungere una maggiore efficienza di processo: dunque produrre di più, più in fretta e a costi più bassi, recuperando così l’investimento.

Quindi avere un’industria 4.0 mi costa meno. Ma – e questo non può non essere considerato – mi costa davvero meno solo nel momento in cui posso vendere i miei prodotti in loco.

Cosa accade quando il mio mercato è da un’altra parte? Diciamo pure in un altro continente. Diciamo pure in Cina…

In termini generali la scelta di localizzare la produzione di una impresa deriva dalla necessità di produrre nello stabilimento situato nel paese in cui si vuole vendere, proprio per azzerare (o quasi) costi di trasporto (e soprattutto dei dazi). Anche il prezzo di vendita sarà logicamente più basso, ma perché più basso sarà anche il costo di produzione, nonché quello che il mercato sarà disposto a tollerare.

Di certo non ha senso produrre in Cina o in Vietnam per poi vendere negli Stati Uniti, perché i costi di trasporto vanificherebbero i risparmi ottenuti in fase di produzione. E viceversa…

Siete d’accordo?

di Stefano Garavaglia

È il CEO di MICROingranaggi, nonché l'anima dell'azienda.
Per Stefano un imprenditore deve avere le tre C: Cuore, Cervello, Costanza.
Cuore inteso come passione per quello che fa, istinto e rispetto per il prossimo. Cervello inteso come visione, come capacità a non farsi influenzare da situazioni negative. Costanza perché un imprenditore non deve mai mollare.

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