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Dal settore Punti di vista

Fare o non fare magazzino?

La maggior parte delle industrie manifatturiere del nostro paese (e non solo) oggi tende a ridurre al minimo le scorte di magazzino e questo finisce per avere ripercussioni non di poco conto sull’intera filiera produttiva. Quale dovrebbe essere il giusto compromesso? E soprattutto: ci sono soluzioni per ovviare a questa situazione?

Intanto c’è da dire che sono diverse le ragioni che portano le imprese a non fare magazzino.

A partire dal fatto, per esempio, che sono cambiate le marginalità, una tendenza in evoluzione iniziata ancora prima della crisi e che sta portando ad avere margini sul venduto sempre più bassi. In altre parole: i prodotti oggi devono avere una qualità sempre più alta, ma – al contempo – devono diminuire i costi di produzione. Vien da sé che il magazzino, essendo una voce importante nella composizione dei costi di realizzazione, sia uno degli elementi su cui le imprese sono andate ad agire.

Come scrissi in un post di un po’ di tempo fa, inoltre, il ciclo di vita medio del prodotto finale (qualunque, o quasi, esso sia) è diminuito notevolmente (obsolescenza programmata). Di conseguenza diventa problematico tenere grandi scorte di magazzino delle relative componenti, perché nel momento in cui un tale prodotto diventa obsoleto, le sue sue componenti risultano inutilizzabili e il che significa che sono state prodotte inutilmente. Una volta realizzato, infatti, un articolo difficilmente può essere variato: andare ad apportare delle modifiche nella maggior parte dei casi costerebbe di più che realizzare tale prodotto ex novo.

Quarta ragione: il magazzino ha un costo anche solo per il posto a terra che occupa. Un discorso, quest’ultimo, che cuba soprattutto sulle aziende che prendono in affitto lo spazio dedicato all’area deposito.
Un magazzino, infine, va inventariato, manutenuto, controllato, sincronizzato con il gestionale dell’azienda eccetera. Occorre quindi anche del personale che si occupi di gestirlo. Personale che ha un costo, che – soprattutto nell’ottica di contenere le spese di produzione – va tenuto in considerazione.

Per tutte queste ragioni (e probabilmente per molte altre), le aziende hanno la tendenza ad avere magazzini sempre più compattati. C’è però un problema:

non avere magazzino significa prolungare le tempistiche di produzione e quindi quelle di consegna.

Questa criticità mal si concilia con un’altra problematica: i commerciali delle aziende clienti sono più o meno tutti d’accordo nell’affermare che la loro visibilità sul venduto è generalmente di poche settimane
e quindi più di tanto non possono esporsi con i loro fornitori.
In questo modo, però, a noi produttori rimangono mediamente tra i 40 e i 60 giorni di lead time per la realizzazione di un articolo, una tempistica più che esasperata.

Quale soluzione? Qualcuno – nella catena produttiva – deve necessariamente fare il magazzino e lo deve fare in maniera oculata.
Ma come?

In MICROingranaggi, per esempio, stiamo proponendo dei contratti di fornitura, che trovano un buon riscontro da parte di non pochi clienti, i quali – tenendo traccia dello storico del venduto – hanno elementi validi per fare previsioni e decidono di esporsi.
Quindi il cliente si impegna ad acquistare una determinata quantità di materiale entro un certo tempo. Non si tratta però di una data esatta, bensì di un previsionale – generalmente mensile o trimestrale – che coincide con quella che è la sua visibilità. A quel punto sta alla bravura del reparto produzione e di quello degli acquisti a gestire tale commessa al meglio in modo da ridurre al minimo i costi di realizzazione, date determinate condizioni iniziali concordate con il cliente (quando comprare la materia prima, come e quando fare ogni lavorazione, e così via…).

Ma cosa ci guadagna il cliente che si impegna sottoscrivendo un contratto di fornitura? Sicuramente tempi di consegna più brevi. E indubbiamente anche costi più bassi (prezzi bloccati al momento della firma ed economie di scala).

di Stefano Garavaglia

È il CEO di MICROingranaggi, nonché l'anima dell'azienda.
Per Stefano un imprenditore deve avere le tre C: Cuore, Cervello, Costanza.
Cuore inteso come passione per quello che fa, istinto e rispetto per il prossimo. Cervello inteso come visione, come capacità a non farsi influenzare da situazioni negative. Costanza perché un imprenditore non deve mai mollare.

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