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Come può essere davvero un problema mondiale il crollo del costo del petrolio?

Quello che sta accadendo in questi ultimi mesi – parlo per esempio della bolla cinese e del crollo del costo del petrolio – continua a farmi riflettere sull’influenza che la finanza ha sull’economia. Perché – mi domando – l’industria dovrebbe essere condizionata non dal suo operato, quanto piuttosto dall’andamento della finanza?
Prendiamo il caso del crollo del costo del petrolio, per esempio. Una tendenza iniziata nella seconda metà dello scorso anno, che gli esperti hanno ipotizzato potrebbe continuare fino al 2020. Fatto salvo che per alcuni settori diametralmente opposti a quello del petrolio (come auto elettrica, energia solare, eccetera…), tutti gli altri dovrebbero recepire questa notizia come un qualcosa di estremamente positivo, industria manifatturiera in primis. Basti pensare per esempio a quanto diminuirebbero le spese dell’energia elettrica e di conseguenza alla drastica riduzione dei costi di produzione di tutto ciò che richiede l’utilizzo di macchinari a consumo energetico. Ma anche al banale (ma neanche troppo) consumo di gas necessario al riscaldamento. O ai carburanti per il trasporto delle merci (anche se con le accise che abbiamo in Italia i prezzi di benzina e gasolio non sono così bassi come dovrebbero).

Il calo del costo del petrolio dovrebbe far pensare a momenti di ripresa, a grandi sviluppi economici, ma non è così. Non solo non muove l’economia come dovrebbe, ma addirittura quasi la blocca. Quindi mi domando

Come può essere davvero un problema mondiale il crollo del costo del petrolio?

Alcune motivazioni – e mi riferisco sostanzialmente a quelle legate alla finanza – mi lasciano davvero molto perplesso.

In altre parole: mi rendo conto che a risentirne possano essere, per esempio, gli Stati Uniti, dove oggi il settore petrolifero rappresenta circa il 20% dell’industria*. È evidente che un forte rallentamento di questo comparto rischia di avere immense ripercussioni sull’economia americana. E, di conseguenza, anche sulle nostre esportazioni.
Posso anche capire, per fare un altro esempio, che a preoccuparsi del crollo prezzo del petrolio siano i Paesi che storicamente lo producono e lo esportano. Quello che però mi lascia più perplesso è che – proprio a causa del calo del costo del petrolio – questi stessi paesi assistano a un crollo delle loro valute, con conseguenti ripercussioni sulle loro Borse e quindi sulle loro economie. E di riflesso anche sulle nostre.
Allo stesso modo, mi lascia perplesso anche il fatto che le società petrolifere – avendo un grande peso negli indici azionari – provochino effetti negativi su tutto il listino nel momento in cui iniziano ad andare male. E che questo poi si ripercuota negativamente a livello generale sull’economia.

Io sono infatti del parere che

l’andamento dell’economia dovrebbe dipendere dall’operato delle varie realtà che ne compongono il tessuto industriale, invece che dall’andamento della finanza.

E a questo proposito trovo molto interessante quanto ha recentemente scritto il giornalista britannico Will Hutton:
Quello che deve succedere è abbastanza evidente. C’è bisogno di un cambiamento radicale nel pensiero economico. […] Il potere dei mercati finanziari va limitato. […] Le grandi aziende devono poter creare valore autonomamente invece di essere costrette a dipendere dagli interessi degli azionisti”.

Siete d’accordo?

*fonte Natixis

di Stefano Garavaglia

È il CEO di MICROingranaggi, nonché l'anima dell'azienda.
Per Stefano un imprenditore deve avere le tre C: Cuore, Cervello, Costanza.
Cuore inteso come passione per quello che fa, istinto e rispetto per il prossimo. Cervello inteso come visione, come capacità a non farsi influenzare da situazioni negative. Costanza perché un imprenditore non deve mai mollare.

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